Dalle Scritture alle poesie, la speranza erige e orienta

Il legame tra due termini che definiscono il senso del nostro essere figli e "prigionieri" della promessa di eternità

Carlo Ossola
|4 mesi fa
Agenzia Romano Siciliani |
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«Vi esorto dunque io, il prigioniero nel Signore, a comportarvi in maniera degna della vocazione che avete ricevuto, / con ogni umiltà, mansuetudine e pazienza, sopportandovi a vicenda con amore, / cercando di conservare l'unità dello spirito per mezzo del vincolo della pace. / Un solo corpo, un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati» (Efesini, 4, 1-4).
Questo, anche nei versetti che seguono, è stato – con il Pater noster – il primo catechismo cristiano: siamo tutti figli e “prigionieri” della Promessa, nel vincolo della pace, nell’unità della Speranza che è la nostra vocazione: «speranza escatologica», come definisce la Gaudium et Spes (§ 21) e ben sanno le lingue umane. Il francese, ad esempio distingue tra espoir (fiducia di poter ottenere qualcosa) e espérance: sentimento di fiducia in un avvenire che sarà compimento. I due sensi non vanno disgiunti tuttavia: fanno parte di un movimento verso la Plenitudine, nella quale tutto intero il creato e l’umanità ritroveranno la loro dignità: «La Chiesa sa perfettamente che il suo messaggio è in armonia con le aspirazioni più segrete del cuore umano quando essa difende la dignità della vocazione umana, e così ridona la speranza a quanti ormai non osano più credere alla grandezza del loro destino» (Gaudium et Spes, § 21).
Il «vincolo della pace» è frutto e segnacolo della speranza, sin dal primo annuncio evangelico: «Et pax hominibus bonae voluntatis» (aver tolto ora, dall’italiano del Gloria, gli «uomini di buona volontà» contraddice non solo la bimillenaria Vulgata, ma le Costituzioni stesse del Vaticano II che si rivolge, con il pegno della pace, all’umanità intera). Speranza e pace sono congiunte inscindibilmente nella storia cristiana, sin dall’innologia medievale: «O spes et pax omnium / Lumen, Christe, gentium»: il Cristo è speranza e pace di tutte le genti, Lumen gentium appunto.
La speranza è vigile sul tempo umano: proprio perché obbedisce al Tempo ultimo, non si contenta di un irenismo dimissionario; con forza lo richiamava la Gaudium et Spes ancora: «Né ci inganni una falsa speranza. Se non verranno in futuro conclusi stabili e onesti trattati di pace universale, rinunciando ad ogni odio e inimicizia, l'umanità che, pur avendo compiuto mirabili conquiste nel campo scientifico, si trova già in grave pericolo, sarà forse condotta funestamente a quell'ora, in cui non potrà sperimentare altra pace che la pace terribile della morte» (§ 82).
La Speranza è l’operosa operaia della pace: «Unisce in alto, a tenda» (Paul Celan) tutti gli uomini di buona volontà, additando il fine comune che è la piena dignità dell’uomo: «Così facendo, risveglieremo in tutti gli uomini della terra una viva speranza, dono dello Spirito Santo, affinché alla fine essi vengano ammessi nella pace e felicità somma, nella patria che risplende della gloria del Signore» (Gaudium et Spes, § 93, explicit). San Pier Damiani (collocato molto in alto nel Paradiso di Dante: canto XXI) aveva delineato il percorso struttivo tra queste virtù fondamentali: «pax cunctos nectit, omnes patientia tolerat, […] spes erigit, fides solidat» (Laus cluniacensis congregationis, 12); la pace vincola tutti, la pazienza tutti sopporta, la speranza erige, la fede consolida.
La speranza erige: essa non è fiducia disponibile a ogni baluginare; è progetto e costruzione, sin da sant’Agostino: «Deus cui nos fides excitat, spes erigit, charitas jungit» (Soliloquia, I, I, 3); da cui procede una lunga discendenza: così Adamo Scoto, nel secolo XII-XIII: « quia spiritualis nostri tabernaculi fundamentum quidem fides est, spes fabricam erigit; sed charitas aedificium perficit» (De tripartito tabernaculo, III): il fondamento del nostro tabernacolo spirituale è la fede, la speranza ne erige la fabbrica, la carità porta a compimento l’edificio. Altrove dirà che «la speranza erige i muri portanti e la carità li copre con un ampio tetto».
La speranza erige: Alano di Lilla, in anni paralleli, afferma lo stesso concetto nel suo trattato Distinctiones rerum teologalium: «spes ad superna erigit». Ma già Alcuino, secoli prima, nel suo mirabile Confessio fidei aveva sintetizzato con vigore: «Deus cujus fides nos excitat, spes erigit, charitas jungit»; quel Dio, la fede nel quale ci fa sorgere, la speranza edifica, e la carità vincola. E così Ugo di San Vittore e molti con lui, ricordati del resto da Henri de Lubac, nella sua summa Esegesi medievale, nel magnifico capitolo sui Simboli architettonici. Come sempre, il compendio ultimo sarà dettato da san Tommaso: «Sed in aedificio spirituali fides se habet ut fundamentum; spes autem quae erigit, se habet per modum parietis» (Quaestiones disputatae de virtutibus, Prooemium, art. 4): «Nell’edificio spirituale la fede si costituisce come fondamento, e la speranza – che è quella che erige – si presenta come una parete».
Se volessimo anzi comprendere i precedenti della Gaudium et Spes (uno dei testi conciliari più intensi) dovremmo chiederci: a che cosa orienta, che cosa erige la speranza? Le risposte sono nei secoli coerenti: dapprima essa costruisce, in noi, le mura atte ad accogliere il gaudio della elezione che ci è stata offerta: «Spes ad gaudium erigit», dice l’anonimo trattato medievale De modo bene vivendi; poi si erge come baluardo contro il male di vivere. I tempi moderni, XIX – XX secolo, hanno soprattutto sottolineato questo secondo aspetto, in spe contra spem; basterebbe ricordare l’anelito di La Mennais nel suo ansioso Essai sur l’indifférence en matière de religion, 1817, che tanto conterà per il Leopardi: «Ecco l’uomo caduto, l’uomo che un crimine ancestrale tormenta interiormente. Di colpo, si eleva una voce di speranza e domina questa voce di dolore. L’occhio del profeta ha intravisto la salvezza nell’avvenire». Su questo fondamento, intuisce La Mennais citando Bossuet, la speranza umana si distende quanto la misericordia di Dio, all’infinito: «Bossuet va anche oltre, e ci piace vedere questo grand’uomo, così poco sospettabile di fiacchezza nella dottrina, allargare - per così dire – la sua speranza come Dio stesso si compiace di dilatare la propria misericordia».
Nella poesia del Novecento, soprattutto, troviamo la forza edificatrice della speranza: proprio di fronte all’abominio della II Guerra mondiale, Giuseppe Ungaretti ripensa alla civiltà cristiana, alla grande cupola vaticana di Michelangelo e detta uno degli inni più ispirati all’erigere e all’ergersi della speranza:

Appresero così le braccia offerte
– I carnali occhi
Disfatti da dissimulate lacrime,
L’orecchio assurdo, –
Quell’umile speranza
Che travolgeva il teso Michelangelo
A murare ogni spazio in un baleno
Non concedendo all’anima
Nemmeno la risorsa di spezzarsi.

Per desolato fremito ale dava
A un’urbe come una semenza, arcana,
Perpetuava in sé il certo cielo, cupola
Febbrilmente superstite.
(Folli i miei passi, da Il Dolore, 1947)
La speranza edifica, eleva, sostiene: è «certo cielo», eterna semente, eternamente superstite.