L'allarme di Mattarella sui nuovi imperi che minacciano l'Occidente
Dalle Big Tech al dominio neoimperialista: c’è una profonda resistenza europea a tutto questo. Ma tale resistenza deve trasformarsi in forza creatrice: in altre parole, in politica
Agostino Giovagnoli
|2 mesi fa

Strapotere delle Big tech e dominio neo-imperialista: un intreccio letale per il futuro dell’umanità. Cui può opporsi oggi solo l’Europa. È questo, in sintesi, il messaggio insolitamente forte inviato dal presidente Mattarella a Cernobbio. Colto dalla stampa in tutta la sua gravità, caduto nell’indifferenza della politica. Ma delle due l’una: o l’allarme è infondato; oppure, gli europei – italiani in primis – devono svegliarsi dal sonno. Purtroppo, l’allarme sembra decisamente fondato. Quattro immagini (più una) hanno fatto il giro del mondo negli ultimi giorni: la parata militare di Pechino; i droni russi sulla Polonia; i missili israeliani a Doha. Per molti osservatori, tutte e tre, in modi diversi, chiamano in causa gli “insuccessi” di Trump: invece di risolvere i problemi, le sue scelte li avrebbero aggravati, indebolendo l’Occidente. Difficile però pensare che tali “insuccessi” siano tutti incidenti o errori. Più probabile che dietro tutto ciò ci sia, se non un progetto ben definito, quantomeno un orientamento complessivo, anche se fatichiamo a capirlo. La quarta immagine che ha fatto il giro del mondo mostra il presidente americano che riceve a cena i massimi rappresentanti delle Big Tech ostentando superiorità. Ma oggi negli Stati Uniti il potere politico è funzionale a queste (nuove) Compagnie delle Indie che si arrogano poteri di cui spogliano Stati nazionali e Organizzazioni internazionali, per usare le parole di Mattarella. Anche le sorti sempre più incerte della democrazia in Usa appaiono funzionali a tali interessi. Trump pensa forse di sviluppare un nuovo grande potere “imperiale”, ma intanto contribuisce a un’autodistruzione dell’Occidente – dei suoi valori e delle sue strutture portanti – cui concorrono proprio le grandi concentrazioni economiche, finanziarie e tecnologiche. È probabilmente questa la “logica” cui si ispirano molte scelte che non capiamo.
C’è chi dice che stia finendo il periodo cominciato nel 1945 – fine della Seconda guerra mondiale – o quello iniziato nel 1989 – caduta del muro di Berlino –. In realtà, stiamo vivendo la (lunga) conclusione di cinquecento anni di storia. Cinque secoli, infatti, è durata la parabola del sistema mondo occidentale, nel corso della quale il potere di gradi soggetti economici, come le (vecchie) Compagnie delle Indie, è stato riequilibrato dalla crescita di quello degli Stati e dei popoli. È dentro questo sistema mondo che si sono formati anche gli Stati Uniti, i quali ne hanno poi assunto la leadership. Si può pensare che Trump sbagli dimenticando che la forza di tale leadership e, dunque, quella degli stessi Stati Uniti, sono legate alla storia di tutto l’Occidente, ai pilastri culturali, sociali e istituzionali su cui si è basato per secoli, ai legami tra tutti i popoli che ne fanno parte. Si può anche pensare che rompendo con l’Europa, Trump stia segando il ramo su cui gli Usa hanno costruito la loro forza. Ma bisogna prendere atto che gli Stati Uniti si stanno allontanando dal Vecchio Continente.
C’è una profonda resistenza europea a tutto questo, ha sottolineato giustamente Mattarella. Ma tale resistenza deve trasformarsi in forza creatrice: in altre parole, in politica. Oggi un diffuso scetticismo porta a considerare debole l’unità dell’Europa e irrilevante il suo peso. È vero: l’Unione europea sconta ritardi sull’innovazione tecnologica e non offre risposte immediate alle situazioni drammatiche dell’Ucraina e del Medio Oriente. Ma è inevitabile che le istituzioni europee non siano all’altezza delle nuove sfide: non sono state costruite in una sola volta e secondo un progetto unitario, ma pezzo pezzo e per rispondere a questioni diverse. Non sono, cioè, uno Stato perché così (sbagliando?) le abbiamo volute. Se oggi svolgono funzioni preziosissime è perché alla loro origine ci sono state scelte politiche diverse, prese di volta in volta. Così è stato per la Ceca nel 1950 e per il Mercato comune nel 1957. Ancora più illuminante è il caso dell’Unione europea, nata nel 1992, alle cui radici ci furono decisioni americane – come la fine della parità tra dollaro e oro nel 1971 – e lo “choc globale” degli anni Settanta. Gli europei cominciarono da subito a ragionare insieme sulle risposte da dare e, grazie anche ad italiani come Aldo Moro, a porre le premesse dello Sme (sistema monetario europeo). Ne è poi scaturito il grande progetto di Jacques Delors, ma non si sarebbe arrivati all’euro senza altre scelte politiche, come l’Atto unico di Milano del 1985 sostenuto da Craxi e Andreotti. Ecco perché è sbagliato addossare alle istituzioni europee la colpa di decisioni mancate che spettano invece alla politica. C’è bisogno di leaders coraggiosi e di opinioni pubbliche che indichino la strada da prendere. Dove sono? Quanto sta accadendo in Francia mostra che l’ubriacatura populista è sempre più diffusa. Non è una buona notizia per gli europei, italiani compresi. Per dare un futuro all’Europa – e al mondo – società civile e forze politiche aprano subito in Italia un grande dibattito sulle questioni poste da Mattarella. Perché il sonno della politica genera mostri.

