"Belve Crime" funziona? Ecco lo spin-off del programma tv condotto da Francesca Fagnani
Dopo il grande successo televisivo della trasmissione di Rai2, la proposta della giornalista e del collega Stefano Nazzi
Fabrizia Malgieri
14 giugno 2025|11 giorni fa

Francesca Fagnani durante la prima puntata di "Belve" - © Libertà/Fabrizia Malgieri
Si sa, il true crime è un genere in grado di resistere alle mode passeggere. È una fascinazione costante, di cui si evidenziano tracce già a partire dal XVI secolo, quando – soprattutto in Gran Bretagna – inizia a prendere corpo la stampa periodica, e dove inizia a trovare grande spazio la cosiddetta «cronaca nera». Il «male» ha sempre esercitato una certa attrazione sul pubblico, e questo anche perché vede noi, spettatori o lettori, in una posizione privilegiata, in cui possiamo osservare e, al tempo stesso, giudicare quelli che sono i fatti processuali, ma soprattutto i possibili colpevoli. Non sorprende, dunque, che il true crime – anche e soprattutto attraverso la pluralità di media con cui quotidianamente facciamo i conti – continui a proliferare e a trovare spazi di discussione nei mondi «altri» dalla realtà, raggiungendo anche risultati importanti in termini di audience. Provate a scorrere la library o il palinsesto di un qualsiasi medium, e fateci caso: non manca uno spazio dedicato al true crime. Che si tratti di programmi televisivi, documentari su piattaforme over-the-top o, come accade più recentemente, di podcast, non c’è piattaforma che non si sia fatto attrarre dalla cronaca nera. Che è ciò che accaduto anche con un programma tv di successo come “Belve” – scritto e condotto da Francesca Fagnani – diventato popolare negli anni per il taglio irriverente con cui la giornalista conduce le sue interviste. Un format che ha regole precise, anche in termini di prossemica: intervistato e intervistatrice sono seduti su due sgabelli in ferro piuttosto scomodi, con la volontà di mettere a disagio il primo – e anche un po’ “sotto torchio”, quasi fosse un interrogatorio in piena regola - che verrà letteralmente bombardato di domande dalla giornalista, che stringe tra le mani un’agenda rossa piuttosto voluminosa e piena di graffette con informazioni che riguardano l’intervistato, con l’intento di mettere in soggezione la presunta “belva”. Come in un circo di cui è l’unica e sola domatrice, Fagnani è pungente, ironica, tagliente nonostante non neghi mai un sorriso: sembra talvolta schernire, in altri casi sostenere, il suo “interrogato”, a cui, tuttavia, viene sempre dato largo spazio per ribattere in modo leggero e complice, dove però il servizio è sempre a favore di Fagnani e della sua agenda più simile ad un “book of shame”. Quello che è, a tutti gli effetti, un programma televisivo di intrattenimento, che difficilmente si prende sul serio (basti pensare alla prima domanda con cui Fagnani apre qualsiasi sua intervista, “Che belva si sente?”), ha assistito pochi giorni fa alla nascita di uno spin-off che ha intenti molto diversi rispetto allo show “madre”, pur mantenendo una struttura piuttosto simile, chiamato “Belve Crime”. Come suggerisce il titolo, questa riformulazione di “Belve” vede Fagnani – per lunghi anni giornalista attiva nel campo della cronaca nera, e di cui celebri, infatti, sono le inchieste sul clan dei Casamonica – intervistare sia detenuti per reati gravi sia collaboratori di giustizia.

La prima puntata, andata in onda martedì 10 giugno, ha avuto diversi ospiti, tra cui Massimo Bossetti, attualmente in carcere a Bollate per l’accusa dell’omicidio di Yara Gambirasio, la tredicenne di Brembate scomparsa nel nulla una sera di novembre e ritrovata qualche anno dopo in un campo di Chignolo d’Isola. I numeri? Inutile dirlo: stando ai dati Auditel pubblicati mercoledì 11 giugno, “Belve Crime” ha totalizzato 1.581.923 spettatori con l’11,8% di share, confermando quello che è l’interesse (a tratti morboso) del pubblico da casa nei confronti dei casi di cronaca, soprattutto per quelli che hanno una rilevanza mediatica in tanti salotti televisivi. A differenza del programma principale, questo spin-off prevede alcune modifiche: in primo luogo, un’introduzione del caso di cronaca oggetto dell’intervista curata dal giornalista Stefano Nazzi, che da anni – grazie al suo podcast “Indagini” pubblicato da “Il Post” – si è costruito uno spazio importantissimo per ciò che riguarda i casi di cronaca nera e cronaca giudiziaria, senza tuttavia mai concentrarsi sugli aspetti mediatici delle vicende (e questo, soprattutto, per rispetto delle vittime). Si tratta di un’intro piuttosto breve, dalla durata di circa una manciata di minuti, in cui Nazzi – con professionalità e dovere di cronaca – ripercorre il caso attraverso le sue tappe principali, riprendendo lo stile narrativo, asciutto e concreto, che è diventato il marchio di fabbrica del suo podcast. In secondo luogo, parte l’intervista condotta da Fagnani, che – quanto meno nella prima puntata – ha visto due “palchi”: il primo, quello in studio come nel “Belve” classico, in cui viene riproposta persino la medesima scenografia, con i due sgabelli in acciaio e, sullo sfondo, l’immagine di una pantera – simbolo del programma – che si staglia dietro l’intervistato; e poi un secondo, questa volta riprodotto ad hoc nel carcere di Bollate per condurre l’intervista a Massimo Bossetti dove, seppur permangano gli sgabelli, l’immagine di sfondo è diversa, questa volta replicando un altro logo del programma (il segno di un graffio), quasi a voler imprimere sin da subito sull’intervistato un segno indelebile – una colpa o una condanna che è difficile dimenticare. Anche gli abiti di Fagnani sono diversi: seppur durante le interviste in studio, la giornalista indossi un look total black proprio come nel programma base, nell’intervista a Bossetti Fagnani opta per un dresscode più minimal, quasi con l’intento di sparire e spostare il focus dello spettatore completamente sull’intervistato.

Nonostante le incredibili capacità di Fagnani nel condurre l’intervista, sollecitando i diversi ospiti a raccontare anche aspetti privati che, tuttavia, si intrecciano al caso di cronaca in oggetto – e questo senza mai venir meno a quello che il rispetto per le vittime (anzi, è encomiabile il tatto e l’ardore con cui la giornalista ricorda all’intervistato perché sia lì) – c’è una domanda che ricorre per tutte le 3 ore di trasmissione: perché chiamarlo proprio “Belve Crime”? Sebbene certe dinamiche di storytelling rimangano invariate e si replichino alcune delle strutture presenti nell’opera originale, il paradosso è che, vista la forte identità che il programma è stato in grado di costruirsi negli anni (e soprattutto, tenendo in considerazione il tono anche più leggero con cui vengono condotte le interviste), questo elemento va a scontrarsi in modo irrimediabile con quella che è la formula immaginata per questo spin-off. Certo, le Belve qui sono uomini e donne che hanno ceduto all’irrazionalità, all’istinto – come degli animali a cui si fa costante riferimento, anche attraverso i vezzi grafici della scenografia e delle grafiche della trasmissione – ma la scelta di optare per un mood più serio, visto anche il tenore delle interviste, depaupera il programma di quella che è la sua reale mission. “Belve” è un programma in cui un Vip si mette a nudo, talvolta in modo scherzoso o audace, stando al gioco con la stessa Fagnani; al contrario, proprio per i temi che tratta, il titolo “Belve Crime” sembra stonare con quelli che sono gli intenti nobili del programma. Un flop? Non di certo, visti gli ottimi risultati in termini di share. Ma forse ripensare ad un titolo più calzante, senza necessariamente cavalcare l’onda del successo di “Belve”, avrebbe giovato su quella che è l’energia potente del programma, senza creare alcun fraintendimento.