Testimone d’accusa
Lisa Ginzburg
|6 mesi fa

Era il 1968 quando Ernest Cole, sudafricano, pubblicò il suo libro fotografico dal titolo My country, my hell (Il mio paese, il mio inferno). Con i suoi scatti per primo testimoniò l’orrore dell’apartheid. Lo fece con grande forza, senza orpelli o abbellimenti supplementari alle sue immagini molto dure da guardare. Anni dopo divenne noto (non quanto avrebbe meritato: morì in miseria, solo, nemmeno cinquantenne). Riemersero allora varie interviste che aveva rilasciato nel corso degli anni. A un’intervistatrice, Cole aveva raccontato che il più decisivo, quello che lo aveva convinto a scegliere la sua strada, era stato l’incontro con le fotografie di Henri Cartier-Bresson. Lui ancora un ragazzino, cresciuto in un villaggio vicino a Pretoria e innamorato delle macchine fotografiche, per caso si era imbattuto nel libro Gente di Russia, i ritratti realizzati dal grande fotografo francese. Quello sguardo sugli esseri umani, diretto, frontale, senza mai impostare neppure i tagli delle inquadrature, fu immediato insegnamento, folgorazione. Fu grazie a quel libro che Cole si convinse. Avrebbe raccontato il suo Paese, il suo inferno. Gli orrori di una discriminazione razziale senza eguali, con le sue fotografie li avrebbe mostrati agli occhi ignari del mondo. © riproduzione riservata

