Il giovane campione che disse basta
Dopo la trafila nell’Inter e nelle nazionali di categoria Enrico De Micheli abbandonò il calcio a soli 22 anni

Michele Rancati
16 maggio 2025|40 giorni fa

Enrico De Michele in allenamento con Roberto Mancini
Lucidità e intelligenza sono sempre state due qualità di Enrico De Micheli.
Le aveva in campo, quando brillava nel centrocampo delle giovanili dell’Inter e delle Nazionali. Non le ha certo perse oggi, che a soli 28 anni parla già al passato remoto della sua carriera calcistica cominciata presto nel San Giuseppe e proseguita dall’età di 12 anni all’Inter.
«Sinceramente non so quando mi abbiano scelto - confessa - probabilmente vedendomi in un torneo o in una delle partite che ogni tanto giocavamo come sorta di “provini”. Per me non faceva grande differenza, perché ho sempre visto questo sport come un grande divertimento, un modo di fare ciò che mi piaceva assieme agli amici, quindi non mi sono mai preparato ad hoc per fare bella figura in un’occasione particolare. Giocavo come sapevo, nel vero senso della parola».
Dai 12 ai 15 anni spola tra Piacenza e Interello, zona Niguarda, Milano: « Mi venivano a prendere fuori da scuola e mi portavano indietro al termine dell’allenamento, tre-quattro volte a settimana. Sono stati anni impegnativi perché non volevo restare indietro con lo studio, quindi passavo spesso la sera sui libri».
A 15 anni il trasferimento a Milano, in una struttura dell’Inter: mattina a lezione su banchi, pomeriggio sui campi a inseguire un sogno: «È proprio la parola giusta: sogno. Perché stavo facendo ciò che ogni ragazzino desidera, in uno dei settori giovanili migliori d’Italia».
Il ragazzo, come direbbe qualcuno, gioca bene e si impone all’attenzione anche della Nazionale: « Ho fatto tutta la trafila anche in azzurro, fino all’Under 19. A centrocampo giocavamo io e Barella, ma potrei fare tanti altri nomi di compagni che sono arrivati in Serie A o in B».
Un destino che sembrava scritto anche per Enrico: Scudetto con i Giovanissimi, poi con gli Allievi, la Coppa Italia e il torneo di Viareggio con la Primavera, accanto a Di Marco e Di Gregorio, giusto per ricordarne un paio. E poi, invece? « Niente di strano risponde De Micheli con la lucidità di cui sopra - una storia di calcio come tante altre. La prima squadra dell’Inter, nonostante ci avessi fatto un ritiro estivo e tanti allenamenti, era oggettivamente troppo per il mio livello di allora. Così un primo prestito a Prato in Lega Pro, poi Carrarese, un infortunio, l’operazione, la ripresa al Renate e, scaduto il triennale con i nerazzurri, la scelta di avvicinarmi a casa, al Carpaneto in Serie D».
Qui le cose non vanno come sperato e a 22 anni si spegne il fuoco sacro: «Inutile che ripercorra ora i motivi della mia decisione, ma ho scelto di dire “basta”. Mi arrivavano tante offerte, ma non mi piaceva il mondo in cui mi ritrovavo. Competizioni spietate, procuratori senza scrupoli, denaro al primo posto, ideali calpestati. Ho smesso e non mi è mai venuta la nostalgia, quindi non ho più ripreso. La mia famiglia mi ha trasmesso certi valori e io non riesco a stare dove non li riconosco. Non ho rimpianti, solo bei ricordi e l’orgoglio per quel poco che ho fatto. A ragazzi e genitori dico: se anziché portare gioia, giocare a pallone diventa frustrante, non siete nel posto giusto».
Le aveva in campo, quando brillava nel centrocampo delle giovanili dell’Inter e delle Nazionali. Non le ha certo perse oggi, che a soli 28 anni parla già al passato remoto della sua carriera calcistica cominciata presto nel San Giuseppe e proseguita dall’età di 12 anni all’Inter.
«Sinceramente non so quando mi abbiano scelto - confessa - probabilmente vedendomi in un torneo o in una delle partite che ogni tanto giocavamo come sorta di “provini”. Per me non faceva grande differenza, perché ho sempre visto questo sport come un grande divertimento, un modo di fare ciò che mi piaceva assieme agli amici, quindi non mi sono mai preparato ad hoc per fare bella figura in un’occasione particolare. Giocavo come sapevo, nel vero senso della parola».
Dai 12 ai 15 anni spola tra Piacenza e Interello, zona Niguarda, Milano: « Mi venivano a prendere fuori da scuola e mi portavano indietro al termine dell’allenamento, tre-quattro volte a settimana. Sono stati anni impegnativi perché non volevo restare indietro con lo studio, quindi passavo spesso la sera sui libri».
A 15 anni il trasferimento a Milano, in una struttura dell’Inter: mattina a lezione su banchi, pomeriggio sui campi a inseguire un sogno: «È proprio la parola giusta: sogno. Perché stavo facendo ciò che ogni ragazzino desidera, in uno dei settori giovanili migliori d’Italia».
Il ragazzo, come direbbe qualcuno, gioca bene e si impone all’attenzione anche della Nazionale: « Ho fatto tutta la trafila anche in azzurro, fino all’Under 19. A centrocampo giocavamo io e Barella, ma potrei fare tanti altri nomi di compagni che sono arrivati in Serie A o in B».
Un destino che sembrava scritto anche per Enrico: Scudetto con i Giovanissimi, poi con gli Allievi, la Coppa Italia e il torneo di Viareggio con la Primavera, accanto a Di Marco e Di Gregorio, giusto per ricordarne un paio. E poi, invece? « Niente di strano risponde De Micheli con la lucidità di cui sopra - una storia di calcio come tante altre. La prima squadra dell’Inter, nonostante ci avessi fatto un ritiro estivo e tanti allenamenti, era oggettivamente troppo per il mio livello di allora. Così un primo prestito a Prato in Lega Pro, poi Carrarese, un infortunio, l’operazione, la ripresa al Renate e, scaduto il triennale con i nerazzurri, la scelta di avvicinarmi a casa, al Carpaneto in Serie D».
Qui le cose non vanno come sperato e a 22 anni si spegne il fuoco sacro: «Inutile che ripercorra ora i motivi della mia decisione, ma ho scelto di dire “basta”. Mi arrivavano tante offerte, ma non mi piaceva il mondo in cui mi ritrovavo. Competizioni spietate, procuratori senza scrupoli, denaro al primo posto, ideali calpestati. Ho smesso e non mi è mai venuta la nostalgia, quindi non ho più ripreso. La mia famiglia mi ha trasmesso certi valori e io non riesco a stare dove non li riconosco. Non ho rimpianti, solo bei ricordi e l’orgoglio per quel poco che ho fatto. A ragazzi e genitori dico: se anziché portare gioia, giocare a pallone diventa frustrante, non siete nel posto giusto».
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